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Tra dazi e crolli valutari, l’autunno si scalda di apprensione

L’estate si avvia alla conclusione lasciando diversi fronti di preoccupazione per l’economia globale: dalla guerra commerciale tra Usa e Cina alla crisi della lira turca

Non solo dazi e guerre commerciali. Archiviata l’estate si sono aperti molti fronti di apprensione nello scenario economico globale. L’osservato speciale in questo momento è la Turchia, la cui valuta, la lira, ha perso solo nel 2018 circa il 40% del proprio valore rispetto al dollaro americano. Ad arrivare a questa situazione hanno contribuito diversi fattori, come il considerevole indebitamento del settore privato che negli ultimi anni ha iniziato a contrarre sempre più prestiti in dollari americani. Secondo alcune stime, la cifra necessaria a pagare entro l’anno tutto l’ammontare di debiti delle aziende turche equivale a 220 miliardi di dollari. Una Spada di Damocle non solo per il settore privato turco, ma anche per le banche più esposte nel Paese, tutte europee: in cima alla lista figurano la francese Bnp Paribas, l’italiana Unicredit e la spagnola Bbva. Ad agosto le ripercussioni della situazione turca hanno trascinato al ribasso tutte le principali piazze finanziarie europee. La preoccupazione è alta non solo presso gli operatori finanziari, ma anche nella Bce, sebbene gli istituti bancari continentali abbiano rassicurato i mercati sul fatto di essere preparati ad affrontare ogni tipo di scenario. Per dare una dimensione delle cifre in ballo, i debitori turchi devono alle banche spagnole più di 82 miliardi di dollari, a quelle francesi 38,4 e a quelle italiane 17. Per ora la soluzione individuata dal presidente Recep Tayyip Erdoğan è stata quella di chiedere aiuto al Fondo monetario internazionale. Ma è proprio nell’atteggiamento dello stesso presidente turco che risiede un’ulteriore fonte di preoccupazione per gli osservatori internazionali. Oltre al giro di vite contro gli oppositori interni all’indomani del fallito colpo di Stato del 2016, e alla feroce escalation militare contro i curdi spintasi fino in territorio siriano, il leader turco ha mostrato parecchia ambiguità nei rapporti internazionali, con repentini cambi di fronte nelle alleanze. Attualmente il paese pare molto più vicino alle posizioni della Russia di Vladimir Putin che a quelle degli alleati della Nato. Il leader turco non ha risparmiato accuse nei confronti degli Usa, rei di offrire protezione al nemico giurato di Erdoğan, Fetullah Gülen, da anni in esilio in territorio americano. E contro le ultime decisioni del presidente americano Donald Trump riguardanti i dazi, la Turchia lo scorso 15 agosto ha preso una posizione ufficiale rivolgendo all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) un reclamo ufficiale contro la politica doganale degli Stati Uniti. Nel documento, la Turchia ha affermato che i dazi statunitensi sono contrari all’accordo generale sulle tariffe e il commercio (Gatt) del 1994 (quadro di riferimento principale del Wto) e che anche la legislazione statunitense (in particolare quella sull’espansione commerciale del 1963) lo viola.

I dazi e la guerra commerciale Usa-Cina

Ed è proprio la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina l’altra principale fonte di preoccupazione per la stabilità dell’economia mondiale. Il presidente statunitense Donald Trump prosegue a testa bassa nella sua battaglia. La sua amministrazione ha imposto nuove tasse doganali su 16 miliardi di dollari di prodotti cinesi importati (in tutto 279 prodotti), dopo i dazi del 25% già decisi su merci per 34 miliardi di dollari. Le tariffe aggiuntive imposte da Washington riguardano soprattutto prodotti che rientrano nel programma Made in China 2025 per lo sviluppo del manifatturiero avanzato, lanciato dal governo cinese nel 2015. Come risposta la Cina ha imposto tariffe al 25% su 16 miliardi di dollari di merci importate dagli Stati Uniti a partire dal 23 agosto. Pechino ha messo nel mirino 333 categorie di prodotti, che vanno dal carbone alle attrezzature sanitarie, e comprensive anche di carburanti e prodotti in acciaio. La Cina, che ha sottolineato la propria ferma contrarierà ai dazi americani, ha sottolineato che le proprie contromisure sono una risposta agli Usa condotta attraverso “contrattacchi necessari”, che oltre alle nuove tasse doganali si sono tradotti in una protesta formale nell’ambito del meccanismo di risoluzione delle controversie del Wto.

Il fronte sudamericano

C’è anche un terzo grande fronte catalizzatore di apprensione per gli operatori finanziari: l’America Latina. A metà agosto l'Argentina ha alzato i tassi al 45% per arrestare l’ennesimo crollo della valuta nazionale, il peso, che dal 2018 aveva perso circa un terzo del proprio valore. Ora la situazione si è aggravata e la banca centrale argentina, per mettere un argine alla spirale di deprezzamento della valuta nazionale, ha portato i tassi al 60%. Il presidente Mauricio Macri ha già messo le mani avanti, azzerando le stime sulla crescita del pil argentino per quest’anno. E come la Turchia, anche l’Argentina si è rivolta all’Fmi per un prestito da 50 miliardi di dollari per arginare il crollo del cambio. L'annuncio dell'innesto di liquidità però non è stato sufficiente, tanto che il Tesoro argentino ha deciso di sospendere le emissioni di titoli a breve termine, fino a dicembre. Anzi, l’attacco dei mercati al peso argentino è legato proprio al prestito da parte dell’Fmi. La scelta del presidente Macri di annunciare che la prima tranche del prestito sarebbe stata sbloccata in tempi rapidissimi (con la conferma a stretto giro di Christine Lagarde, presidente dell’Fmi) ha generato ulteriore apprensione: gli analisti hanno visto nella rapidità dell'operazione il riflesso di una situazione dell’economia più grave del previsto.
Ma decisamente più drammatica è la nota situazione in cui da tempo versa il Venezuela. Nel paese, un tempo la più florida economia latinoamericana, è tornato a farsi vivo lo spettro della fame, con generi alimentari introvabili nei punti vendita controllati dal governo, e prezzi arrivati a cifre stellari sul mercato nero. L’inflazione è arrivata a toccare l’astronomica quota del milione per cento. I venezuelani stanno scappando in massa dal paese. Dall’avvio della fase dura della crisi, nel 2014, sono ormai 2,3 milioni (su 31 milioni di abitanti: circa il 7% della popolazione) le persone fuggite all’estero. Per frenare questo esodo gli Stati confinanti Perù, Colombia, Cile, Ecuador e Brasile (in quest’ultimo paese, recentemente, sono avvenuti episodi di intolleranza) hanno avviato una stretta alle frontiere nei confronti dei venezuelani. Intanto l’ennesima trovata del presidente Nicolas Maduro per risollevare le disastrate sorti del paese è stata quella di adottare una maxi svalutazione del cambio pari al 96% per arginare l’iperinflazione, togliendo cinque zeri al vecchio bolivar fuerte per l’emissione di un nuovo bolivar soverano, ancorato al Petro, la criptovaluta ufficiale venezuelana a sua volta ancorata alla produzione di petrolio. Il governo ha da poco emesso le nuove banconote con 5 zeri in meno, per cui i nuovi prezzi dovranno essere aggiornati attraverso una divisione per 100mila. Se in precedenza un dollaro veniva scambiato sul mercato ufficiale intorno a 250mila bolivares, con la nuova parità il cambio è stato portato a 60 bolivares contro un dollaro e a sua volta agganciato a Petro. In sostanza, per un Petro si hanno 3.600 bolivares. Nel frattempo, il salario minimo legale è stato aumentato al 3.000%.