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Più rimborsi per salvare le imprese

La politica dei ristori, adottata a sostegno delle aziende che hanno sofferto la sospensione delle attività a causa della pandemia, ha inciso pochissimo sulle possibilità di sopravvivenza di un tessuto produttivo fatto di micro e piccole realtà. Per sostenere la ripartenza è necessario che anche questi soggetti economici possano tornare quanto prima nelle condizioni di operare e garantire lavoro ai propri dipendenti

La ripresa economica che si attende di pari passo all’indebolimento della crisi pandemica, auspicabile per il combinato di vaccinazioni, nuove cure e l’arrivo dei mesi più caldi, sarà possibile e tanto più rapida quanto più le imprese saranno pronte a ripartire. Tenere i motori al minimo per molto tempo, quando non addirittura spenti, comporta una serie di criticità a catena dalle quali non tutti possono o sono in grado di riprendersi. La questione riguarda soprattutto le imprese di dimensioni minori - quella rete fatta di negozi, piccoli artigiani, trasporti privati - che più hanno risentito delle limitazioni imposte dalla pandemia e che sono le meno strutturate per far fronte alle difficoltà economiche, ma senza le quali viene a mancare un tessuto denso di servizi. Alcune di queste aziende sono state chiuse per decreto, altre semplicemente hanno sofferto la ridotta mobilità e il calo dei consumi pur avendo diritto a restare aperte. Per il loro sostegno il Governo Conte ha stanziato una somma pari a 29 miliardi di euro per ristori sotto diverse forme, una cifra che però copre solo il 6,9% dei 423 miliardi di mancati incassi stimati nel 2020, dato quest’ultimo che indica una riduzione di fatturato del -13,5% rispetto al 2019.

Il mix di interventi
Secondo un’analisi dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre, almeno 200 miliardi su 423 sarebbero perdite attribuibili a imprese dei settori che sono stati costretti a chiudere per decreto, e a queste in particolare si rivolgevano i ristori del governo. Se ci si limita a quest’ultimo segmento, e considerando che le misure di sostegno si sono indirizzate in maniera prevalente alle attività che hanno registrato un calo del fatturato di almeno il 33% rispetto al 2019, i ristori erogati hanno raggiunto un livello medio di copertura delle perdite pari al -14,5% circa.
L’ufficio studi degli artigiani di Mestre ha stimato che l’ammontare di 29,1 miliardi di euro di ristori sia composto da un mix di interventi diretti e di agevolazioni o riduzioni fiscali. Più nel dettaglio, si tratterebbe di 11,3 miliardi di contributi a fondo perduto per le imprese, poco meno di 4 miliardi dalla cancellazione del saldo 2019 e acconto 2020 dell’Irap, 5 miliardi da agevolazioni fiscali per sanificazioni e canoni di locazione, 800 milioni da esenzione Imu e Tosap/Cosap e quasi 8 miliardi dalla somma di altri interventi.

A rischio quasi 2 milioni di lavoratori
Nonostante queste misure, per l’Istat sarebbero 292 mila le attività maggiormente a rischio chiusura, distribuite in particolare nei settori produttivi del tessile, abbigliamento, stampa, mobili e edilizia. Rispetto ai servizi sono in maggiore difficoltà i settori della ristorazione, degli alloggi, del commercio al dettaglio, il noleggio, i viaggi, il gioco e lo sport; più in particolare la Cgia segnala come critica la situazione delle imprese commerciali e artigianali delle città d’arte - che alle limitazioni comuni a tutti hanno aggiunto la crisi del turismo - e il trasporto pubblico locale non di linea (taxi, bus operator e autonoleggio con conducente).
L’indagine dell’Istat si è basata su quasi 1 milione di imprese che danno lavoro a oltre 12 milioni di addetti e rappresentano quasi il 90% del valore aggiunto e circa tre quarti dell’occupazione complessiva di industria e servizi. Le 292mila imprese a rischio chiusura occupano in totale circa 1,9 milioni di addetti, una media di 6,5 ad azienda.
L’appello di Cgia è di passare quanto prima da una politica basata sui ristori a rimborsi che possano coprire la gran parte dei mancati incassi e delle spese che comunque le aziende devono sostenere, un intervento di questo tipo graverebbe ulteriormente sul debito pubblico ma permetterebbe di rendere il tessuto produttivo interessato più pronto a sostenere la ripartenza, contribuendo così maggiormente, in prospettiva, anche alle azioni per il recupero del debito pubblico prodotto.